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I discorsi di Andrée

  
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Ho interrotto per molto tempo il resoconto dei fatti accaduti dopo il mio arrivo in paese,
quando era ancora estate a Combray.
Da allora la mia vita ha subito un'accelerazione sorprendente
che mi induce a considerare quegli avvenimenti come ricordi di un tempo già lontano.
Questa impressione spinge la mia scrittura a sostituire il tempo prossimo del Diario
con quello remoto della narrazione e accolgo con soddisfazione
l'evidenza che la forma di questo progetto presenti ormai un nuovo andamento,
che conferma la sua natura dinamica, di forma in divenire.
Del resto, come ho già detto, il proposito di queste pagine è proprio quello di presentare l'elaborazione
di questa forma artistica nuova, esplicitarne i procedimenti e l'evoluzione, per documentare rigorosamente la storia di un processo creativo musicale e testuale.
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Ora, rileggendo le poche frasi che ho scritto nelle righe precedenti mi accorgo di essermi dilungato troppo,
di aver perso chiarezza e concentrazione, di essermi smarrito in una selva di asserzioni troppo generiche,
esposte quasi sempre in modo oscuro, o peggio ancora vaneggiante.
E questo mi spaventa molto. Perché sento che potrebbe essere un annuncio,
il preludio di un declino funzionale, mentale, qualcosa che mi spaventa e di cui conosco le origini.

Per spiegare questi dubbi e il turbamento che mi provocano,
dovrò ripartire da quei giorni, quando ero appena arrivato a Combray.

Ricordo ancora il vago senso di smarrimento avvertito quando Annie mi consegnò le chiavi della casa sul viale che porta alla stazione. Le due finestre, in basso a destra nella fotografia, illuminavano tutta la parte che avrei abitato ed erano l'unica aria della mia nuova abitazione.
Il primo provvedimento che presi per rendere più accoglienti quegli spazi estranei fu quello di fare la spesa e riempire il frigorifero di alimenti e bevande.
Poi sistemai i vestiti nell'armadio,
sapone, spazzolino e rasoio in bagno.
Trasportai la scrivania davanti a una finestra, vi sistemai sopra il computer, i miei quaderni e i libri che avevo portato.
Solo allora mi guardai intorno cercando il coraggio di sedere
per chiedermi in tutta sincerità cosa stessi facendo a Combray,
solo, confuso e anche un po' triste.
Una delle tante possibili risposte mi portò a valutare con attenzione l'ipotesi di Linda, fermamente convinta che tutto questo stesse succedendo solo perché sono andato fuori di testa.
Rimasi a lungo a riflettere, impegnato in una sorta di penoso esame di coscienza mentre dalla finestra guardavo il viale con i suoi pochi passanti che si dirigevano o tornavano dalla stazione.

Cercavo una spiegazione all'urgenza irrazionale
di trovare chiarimenti sugli aspetti in ombra della vita di mio nonno,
un estraneo in fondo, che non avevo mai conosciuto.
Forse il vero obiettivo dell'indagine che stavo per compiere era quello di stabilire
se a scatenare la follia di Leverkühn a Combray concorse una causa esterna,
un incidente, un episodio con una alta carica emotiva e traumatica,
o se invece quella infermità si trovasse scritta dalla nascita nel sangue del nonno,
che per almeno un quarto è anche il mio sangue.
E questo dettaglio spiega bene le origini dell'ansia che mi accompagna da tempo
e mi spinge addirittura a sorvegliare con inquietudine la coerenza dei paragrafi che scrivo.

Per uscire dallo sgradevole stato di allarme che mi procurava la teoria di Linda
mi costrinsi a valutare un'altra risposta, tra quelle verosimili che potevo trovare
alle mie domande e, come nella musica, trovai convincente quella più naturale,
che spiegava l'origine di tutta questa storia con la necessità, latente ma decisiva,
di trovare un posto dove stare in santa pace per scrivere musica,
pensare ai fatti miei e magari fare i conti con la vita passata.
Quelli erano certamente i veri motivi che mi avevano portato in quella regione.

Dopo un attento esame di questa conclusione e il consenso del mio severo senso di realtà,
mi sentii sollevato e pronto a uscire per respirare l'aria satura di sogni
di quel paese incantato, che per molto tempo era stato il centro delle mie fantasie letterarie.

Ormai era quasi sera e sentivo il bisogno di camminare, di guardarmi intorno
e di ritrovare quella realtà più solida e positiva
che solo l'incontro con altri membri della mia specie poteva restituirmi.
Così tornai all'osteria delle "Due Sorelle",
che si trova alla fine di quel ponticello che quasi certamente portava dalla parte di Swann,
e dove grazie a una delle sorelle avevo trovato casa in paese.

Speravo di incontrare qualcuno che si ricordasse di avermi visto quel giorno
e in virtù di quel primo incontro mi facesse la cortesia di scambiare qualche parola.

Mentre chiedevo omelette e insalata mi disturbò il pensiero
che a un certo punto del mio soliloquio pomeridiano
avessi iniziato a parlare con me stesso come a un estraneo malintenzionato,
un mitomane imprevedibile e dannoso che era meglio tenere alla larga.

Così decisi di completare la composizione del menù con un'ottima bottiglia di Chablis.
Ubriacarsi poteva essere una buona risposta
alla mestizia malinconica che mi aveva invaso in quel primo pomeriggio
sacrificato interamente ai grandi interrogativi.

E intanto mi guardavo intorno; vidi che a quell'ora, con il buio, la tabaccheria-bar-tavola calda del ponticello
si trasformava ancora, questa volta in birreria, per accogliere il dopo cena di qualche giovane del paese,
di qualche coppia in via di formazione o separazione,
di gente che non aveva più voglia di stare a casa a guardare la televisione,
donne e uomini che "venivano a farsi un bicchierino",
come in seguito appresi che dicevano di loro stessi,
e a scambiarsi battute di scherno reciproco
intese da tutti come dichiarazione di affetto tra compari.
Così era l'ambiente, chi era in giro a Combray a quell'ora,
capitava fatalmente alla taverna delle due Sorelle, di fronte al ponte,
che non aveva grandi pretese ma accoglieva tutti con tolleranza e buona grazia.

Alla fine della cena, la mia bottiglia era ancora piena a metà,
ma abbastanza vuota da suggerirmi di riempire ancora il bicchiere per alzarlo
verso due giovani donne che, sedute ad un tavolo vicino,
continuavano ad osservarmi e parlottare divertite.
Le sventurate risposero alzando i loro calici e sorridendo.
In pochi istanti mi trovarono seduto al loro tavolo
mentre con la mia mezza bottiglia riempivo i loro bicchieri vuoti.
Forse stavano bevendo Champagne o qualche spumante dei loro chateaux
ma si convertirono prontamente al mio Chablis e così ordinai un'altra bottiglia.
La serata si mette bene, pensavo ormai tra le braccia di un blando ottimismo alcolico.

Si presentarono come Andrée e Albertine, erano giovani dal mio punto di vista,
dai trenta ai trentacinque anni, Albertine era molto bella e il suo fascino veniva amplificato
dall'evidenza che la sua bellezza, come succede solo ai bambini, non le era nota.
Andrée era quella che parlava, era lei a chiedere o raccontare, sempre a nome di entrambe,
mentre Albertine assentiva convintamente a tutto quello che Andrée diceva,
assentiva su tutto, anche sulle domande che Andrée mi poneva,
anche sui dubbi dell'amica. Albertine approvava in silenzio e se la guardavo arrossiva.
Immaginai che le piacesse la solitudine e vivere ritirata nei confini di se stessa.
Per avviare il discorso non trovai di meglio che proporre argomenti educati,
come il tempo e la bellezza di quei luoghi.
Ma Andrée volle arrivare subito al dunque.
Perché ero a Combray e per quanto tempo ci sarei rimasto?
Voleva ad ogni costo essere lei a dirigere la conversazione,
e pur ascoltando con riguardo le poche parole che riuscivo a dire,
riprendeva saldamente la parola alla prima occasione,
e la teneva con sicurezza, esercitando una forma di flusso di coscienza,
teso a comunicare tutti i suoi pensieri, ma seguendo per la loro traduzione verbale
un percorso lontano dai sentieri sicuri della via maestra,
perché sviluppato attraverso procedimenti dialettici secondari.

Rimasi tanto affascinato dallo stile verbale di Andrée che ho voluto ricercarlo
nello studio 59-I discorsi di Andrée, dove imito il filo logico e i modi del suo discorrere,
le variazioni che utilizza per moltiplicare l'idea originale,
il ritmo delle argomentazioni che Andrée dirigeva con naturalezza tra battere e levare,
la conclusione della sua esposizione,
che si ripropone poi inaspettatamente per ribadire un concetto già espresso
ma trattato, questa volta, in ambiti diversi e forse meno convincenti dei primi.

Questi erano i miei pensieri mentre mi trovavo esposto al suo bombardamento verbale.
Volle sapere tutto di me,
Quanti anni avevo? 57.
Ero sposato? Non più.
Figli? Uno.
Quando poi le dissi che sono un musicista volle essere informata su ogni cosa,
ma prima di tutto volle sapere quanto guadagna un musicista,
e più precisamente quanto guadagnavo io con la mia arte.
Mi piacque questa sua aggressione, era franca e leale.
Provai con dolcezza ad informarla
che la musica non è solo un tentativo di conquistare un pubblico,
a volte può presentarsi come una necessità dell'anima,
un piacere privato, un esercizio di verità, una ginnastica spirituale.
Dissi che la musica può essere praticata in modi diversi,
aggiunsi che alla mia età pensare di buttare energie per lusingare un mercato immaginario
sarebbe stata un'idea ridicola e indecorosa.
E conclusi dichiarando che mi trovavo nel loro paese
per scrivere una sonata capace di rivelare il segreto della verità e della bellezza, a tutti, indistintamente.
Di tutto il resto non mi importava niente. Ero piuttosto ubriaco.

Mi guardarono come se avessi appena confessato di avere ucciso i miei genitori e incendiato la loro casa.

Andrée fu la prima a riprendersi e mi chiese:
- lo sai che un artista che si rispetti deve essere infelice nella vita? Tu sei infelice?
Per accordarmi al loro modo moderno di esprimersi risposi che la mia carica di felicità
in quel momento registrava tra il 60 e il 70 per cento di attività
e questo purtroppo mi avrebbe escluso dalla cerchia degli artisti rispettabili.

- Eppure non hai l'aria di divertirti molto. Ti senti triste?
- No, non ho tempo di essere triste perché ho molti pensieri che mi occupano tutta la giornata.
- Meglio per te e per tutti, - concluse Andrée,
- di questi tempi l'aria triste non è considerata di buon gusto,
oggi va di moda l'aria annoiata, e chi non si aggiorna viene classificato come perdente.
Tu comunque ci piaci, la vita di chi lavora è noiosa
mentre i perdigiorno come te sono più interessanti,
hanno più cose da raccontare e le raccontano meglio.

Mi chiesi se stesse scherzando o se davvero credeva in tutto quello che diceva.
Allora conoscevo poco Andrée, non sapevo ancora che lei considera il sarcasmo come il suo lato simpatico.
Nell'incertezza proposi di concederci una terza bottiglia di Chablis,
e visto che la notte era calda e stellata decidemmo di lasciare il locale per andare a sedere in riva al fiume.
Trovammo subito una riva accogliente e una volta seduti,
Andrée si mise a preparare certe sigarette di marijuana,
mentre io mi concentravo sulla terza bottiglia che era venuta con noi
e attendevo un breve riposo del crescente dialettico di Andrée per chiedere di loro.
Trovai il momento giusto per infilare una domanda sulla loro vita a Combray
e l'argomento stuzzicò subito l'euforia verbale della mia nuova amica.

- Noi in questo paese ci siamo nate e vissute,
immerse nella realtà tipica dei paesi di provincia,
guidati quasi sempre da una minoranza moderata e bigotta.
che in chiesa prega un Dio in cui non crede
e considera la povertà come uno sconcio alimentato da abitudini viziose.
Qui le pagine quotidiane dello sport sono l'unica lettura praticata,
e questo, mi spiace dirlo ma rivela una desolante assenza di vita interiore.
In altre parole qui tutti si credono moderati ma sono il vero corpo reazionario del paese.
Sono fatti così, ma ormai ci siamo affezionate a questa gente,
e poi sono quasi tutti nostri parenti.
(Forse è stata proprio la seconda chiusura della sua esposizione
a suggerirmi la composizione dello studio sui discorsi di Andrée).

- Io e Albertine siamo lo scandalo del villaggio
perché come avrai capito siamo una coppia affiatata,
la nostra unione è solida, dichiarata, ed è quindi risolutamente biasimata da tutti,
perché rappresentiamo con orgoglio la prima coppia ufficialmente lesbica che vive in paese.

Non lo avevo capito per niente, e caddero dalle nuvole tutte le mie più ottimistiche fantasie carnali,
senza lasciarmi il tempo di decidere se indirizzarle sull'una o sull'altra.
Mi consolai presto pensando che quel loro legame di cui mi aveva informato Andrée
mi avrebbe evitato un sacco di grane e complicazioni che certamente sarebbero sopravvenute
con i primi sintomi sentimentali o sensoriali attivati da quelle fanciulle in fiore.
La bella notizia era che Andrée e Albertine sapevano tutto di tutti
e mi sarebbero state di grande aiuto nello sviluppo della mia indagine.
Seppi che avevano una vecchia bottega di articoli di antiquariato,
e un comodo appartamento proprio sopra al negozio, dove abitavano ormai da anni.
Andrée, che aveva ricevuto quella casa in eredità, aveva lasciato tutto com'era,
senza cambiamenti, compresa l'insegna del negozio, vecchia e malridotta.

Quella bottega, che aprivano solo nel pomeriggio,
aveva assicurato per anni alle due ragazze le risorse necessarie per vivere,
e solo raramente Andrée e Albertine si erano trovate nella condizione
di dover sporgere qualche bolletta ai genitori comprensivi e prodighi.
Andrée mi informò sbrigativamente che in quel negozio vendevano vecchie cartoline, qualche ritratto,
vestiti e cappelli degli anni Venti, lettere antiche di sconosciuti a ignoti destinatari, e altre mille cianfrusaglie.

Pensai subito che quella attività dava loro modo di conoscere un gran numero di visitatori di Combray,
che venivano indirizzati dal loro istinto di cacciatori verso gli scaffali e gli scatoloni di quella bottega da Herry Potter. Ma ancora più utile per la mia ricerca era che le ragazze conoscevano a fondo buona parte dei loro compaesani e in molti casi dei loro discendenti.
Andrée e Albertine sarebbero state per me una fonte di informazioni preziosissime
ed ero molto contento di questo incontro e della cordiale amicizia che mi avevano offerto.

Ne approfittai subito per chiedere se avessero mai sentito parlare di un tedesco
che aveva abitato a Combray per qualche tempo intorno agli anni Venti.
Ci pensarono con impegno, ma no, non ricordavano storie di abitanti stranieri.
- E poi in quegli anni sopravviveva in molti il ricordo della guerra e non sarebbe stato possibile
per un visitatore che veniva dalla Germania dimorare tranquillamente da noi in quel periodo.
I tedeschi rimasero i "boche" anche a guerra finita e continuarono a essere malvisti da queste parti.

La notte era profumata ed era cessato il passaggio di automobili sul ponte.
Discorremmo ancora di tutto quel che c'era da dire, la vita, i progetti, i pensieri,
e finimmo, mentre iniziavano a cantare gli uccelli del mattino,
per raccontarci storie di morti che lasciavano messaggi nelle segreterie telefoniche
o che più recentemente inviavano ai telefonini di figli o amanti
lamentele o profezie in formato SMS.
Poi, quando Andrée disse che forse noi tutti eravamo solo i sogni di un alieno
ci guardammo atterriti e decidemmo di comune accordo che era ora di andare a dormire.

Fu mentre mi accompagnavano alla mia nuova casa sul viale, che Andrée ricordò qualcosa
su un abitante straniero che forse era vissuto per qualche tempo a Combray.
Ci chiese di fermarci per poter pensare.
Non potei fare a meno di osservare che non riusciva a pensare e camminare nello stesso tempo.
e questo mi portò a ricordare il Nixon della barzelletta,
che si confondeva quando provava a passeggiare e contemporaneamente masticare la gomma.
Non ero concentrato, divagavo mentre Andrée rifletteva,
e quello fu un errore, una di quelle leggerezze che vorrei evitare e che mi allarmano.

- Ecco chi dice che suo nonno era tedesco: Charles!
- Charles, - le fece eco Albertine.
- E chi è Charles?
- Charles è il matto del paese. Avrai sentito dire che dietro ogni scemo c'è un villaggio,
Charles è il nostro, e noi gli vogliamo tutti bene perché è mite e generoso.
A parte che adesso avrà ottanta anni e si sarà pure rimbambito per l'età.
Ma era già matto prima perché anche da giovane parlava da solo
e girava tutto il giorno per il paese dicendo cose assurde.
Non si chiama neanche Charles, ma tutti lo chiamano così
perché ha continuato a ripetere per anni che il suo nonno (il tedesco),
era il miglior amico di Charles Swann, quello del libro.
Lo raccontava a tutti e forse si aspettava che questo dovesse garantirgli la gloria e gli onori di tutto il paese.
Qualcuno dice che la sua follia è iniziata quando ha capito
che nessuno in paese ormai sapeva più chi era questo Swann.

Ci lasciammo davanti alla porta di casa mia,
cercai un congedo rapido per nascondere il mio turbamento,
che stava crescendo rapidamente e volgeva in tempesta
davanti all'ipotesi verosimile e testimoniata che mio nonno avesse potuto concepire un figlio,
qui a Combray, durante il suo lungo soggiorno in questo paese.

La notizia che il figlio di quest'uomo, sedicente fratellastro di mio padre,
fosse ritenuto pazzo da tutto il paese, non poteva che attivare il mio sistema di allarme
e alimentare i più oscuri presentimenti.

Lasciai le ragazze dopo che ci fummo accordati per il giorno dopo.
Sarei andato a trovarle nella loro bottega,
e loro avrebbero cercato Charles,
che a tutti i costi, dopo quello che avevo sentito, volevo incontrare al più presto.

Le vidi avviarsi per la loro strada chiacchierando allegramente ma poi Andrée ritornò di corsa per dirmi ancora
che erano piuttosto seccate per il fatto che non mi fossi innamorato
e non avessi fatto la corte a nessuna delle due. E niente, volevano farmelo sapere.
Erano ragazze davvero simpatiche, ero stato fortunato a trovarle, quella prima sera a Combray.


  
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