26 ottobre 2018
Ho lasciato le dolci colline della Langa, dove abitavo con Linda da più di trenta anni
e ho cercato casa in città, a Torino.
I penosi sviluppi della mia storia sentimentale
mi hanno convinto ad allontanarmi dalla solitudine di quegli ampi spazi
per provare a vivere in mezzo agli altri.
Così ho girato a lungo per questa città, nuova per me,
prima di trovare una piccola casa di due camere
su una piazza soleggiata del quartiere Vanchiglia,
dove ogni mattina si apre un vivace mercato alimentare
che verso il tramonto viene sostituito da una movida allegramente sonora e
tenace.
Alla mia scrivania adesso arrivano tutti i rumori della strada,
con dinamiche che non scendono mai oltre il mezzo forte, ed è proprio quello che volevo.
Il silenzio mi disturba, non mi permette di pensare,
mentre il pedale sonoro continuo che arriva alle mie finestre mi ricorda dove sono,
indica che tutto è cambiato e mi invita a fermarmi per riflettere.
Perchè adesso ho veramente bisogno di raccogliere il miei pensieri,
per ritornare alla certezza di chi sono e di cosa sto facendo.
Linda, mia moglie, ha impiegato gli ultimi dolorosi giorni della nostra convivenza
a ripetermi che nel corso degli ultimi cinque anni mi ha visto perdere progressivamente
il senso della realtà e che in pratica secondo lei sto diventando un po' matto.
Credo che lei in fondo pensi che Adrian Leverkühn
non sia mai esistito e che io non sia affatto suo nipote.
Non me lo ha detto subito in modo esplicito
ma da alcune sfumature,
ombre, parole sfuggite e un portamento non sempre chiaro
ero arrivato alla ragionevole certezza che Linda si stesse davvero convincendo
che quelle sue deduzioni fossero la realtà.
Negli ultimi giorni della nostra convivenza poi è arrivata a dire con grande chiarezza,
che per lei mio nonno esiste solo come personaggio letterario
su cui ho io ho trasferito tutti i fantasmi di una mia realtà patologica di sicura origine nevrotica.
Capisco tutto il suo imbarazzo e intuisco il suo disagio ma temo di non poterla aiutare molto;
purtroppo vive come una grave colpa la decisione di avermi abbandonato per rifarsi una vita con il suo studente.
Ha dovuto costruirsi dei motivi che legittimassero quello che lei
continua ingiustamente a vivere come una dissonanza della sua anima,
la macchia dell'abbandono coniugale,
un antico tabù che evidentemente è rimasto attivo nella sua organizzazione mentale.
Ha bisogno di un tema che le permetta di interpretare la nostra rottura
come un passaggio quasi obbligato e naturale,
che le circostanze a volte costringono ad affrontare malgrado noi e una forte resistenza morale.
Purtoppo non ha trovato di meglio che una mia presunta e provvidenziale instabilità psichica.
Omettendo con discutibile noncuranza tutta la questione del giovane studente.
Pazienza, guardo fuori dalla finestra e mi chiedo chi è stato a dire
che il difficile non è stare con le persone, il difficile è capirle.
Mi chiedo di chi sia questa sentenza che oggi mi torna in mente,
mi chiedo se sia vera e poi mi chiedo se questo detto mi trovi d'accordo.
Ma mi accorgo con vago allarme che non lo so più.
E allora anche per me diventa evidente e vero che sto perdendo le risposte a molte domande.
Ma non sono sorpreso perchè in fondo ho sempre sospettato
che questo destino è scritto nel sangue della mia discendenza da molte generazioni.
Tutto quello che posso fare è cercare di mantenere la concentrazione
e un buon metodo per riuscirci è quello di scrivere musica e continuare lo studio dei quaderni di Adrian.
Nietzsche diceva che la musica è "un telefono dall' aldilà"
ed è proprio questo che intendo quando parlo di concentrazione,
poter dare uno sguardo nell'aldilà
del pensiero.
(Temo di non essere stato molto chiaro ma in fondo questo è un diario intimo,
e quindi, per sua natura può prescindere da alcuni obblighi e concedersi qualche licenza).
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